Alcol e droga nelle cucine professionali: un problema radicato

Alcol e droga nelle cucine professionali

Un problema radicato

L’immagine della cucina professionale è spesso quella di un tempio della creatività e della tecnica, un mondo dove l’eccellenza si conquista con disciplina, passione e sacrificio. Tuttavia, dietro la patina scintillante di piatti stellati e brigate impeccabili, si cela una realtà meno discussa e molto più cupa: l’uso e l’abuso di alcol e droghe da parte di cuochi e lavoratori del settore.

Il problema non è nuovo né raro. È stato oggetto di inchieste giornalistiche, memoir di chef famosi, ricerche accademiche e confessioni private. Eppure rimane spesso sottovalutato, normalizzato o addirittura romantizzato, come se fosse parte integrante dell’identità del mestiere. In questo articolo voglio analizzare in modo critico e approfondito le radici di questa cultura, le sue manifestazioni, le conseguenze sul piano individuale e collettivo e le strade possibili per affrontarla, secondo il mio parere.

Un fenomeno globale

Non esiste un solo Paese in cui il problema non sia stato documentato. Dal Regno Unito agli Stati Uniti, dall’Australia all’Italia, i dati e le testimonianze convergono: i lavoratori della ristorazione, e in particolare delle cucine professionali, hanno tassi di consumo problematico di alcol e sostanze psicoattive significativamente superiori alla media della popolazione.

Negli Stati Uniti,  studi classificano il settore come quello con la più alta prevalenza di uso di droghe illecite sul lavoro. In Australia, ricerche analoghe mostrano percentuali molto alte di binge drinking (abbuffate alcoliche) fra i cuochi.

In Italia mancano dati sistematici recenti e completi, ma esperienze personali, inchieste giornalistiche e le molte testimonianze raccolte fra chef, sous-chef e commis raccontano una realtà simile: consumi elevati di alcol (prima, durante o dopo il servizio), cocaina usata per “tirare avanti” durante i turni massacranti, cannabis per rilassarsi dopo i turni, anfetamine per reggere i doppi turni e lo stress che causa il lavoro.

Origini culturali del problema

Come si spiega questa diffusione così capillare? Le cause sono molteplici e si intrecciano fra fattori individuali, culturali e strutturali.

La cultura della resistenza

Uno dei mantra più diffusi nelle cucine professionali è “resistere”. Il lavoro è duro, fisicamente e mentalmente estenuante: turni di 12-14 ore, ritmi frenetici, alte temperature, scadenze serrate, urla, pressioni costanti.

In questo contesto, l’alcol e la cocaina diventano strumenti di sopravvivenza. Il primo per allentare la tensione e favorire la socialità dopo il turno, la seconda per restare vigili e produttivi. Come ha scritto Anthony Bourdain in Kitchen Confidential, la cocaina era “semplicemente parte dell’ambiente”. Non era solo tollerata, ma quasi un badge di appartenenza.

Amicizie e rituali

Il consumo di alcol ha anche un aspetto sociale e rituale molto forte. Molti cuochi raccontano che la birra o lo shot a fine servizio sono un momento di coesione di squadra. Il “bere insieme” è un rituale per segnare la fine dello stress e cementare i legami.

Questa dinamica di gruppo rende difficile rifiutare o sottrarsi: chi non partecipa rischia di sentirsi un outsider. E se bere dopo il turno è la norma, passare all’uso di sostanze stimolanti per reggere i turni può diventare la tappa successiva.

Romantizzazione del vizio

C’è infine un fattore culturale legato all’immagine stessa dello chef. Per anni (e in parte ancora oggi) il cuoco geniale ma maledetto, eccessivo in tutto, è stato un archetipo affascinante. Libri, serie TV, documentari hanno spesso contribuito a questa mitologia: lo chef distruttivo, alcolista, cocainomane ma geniale, che sacrifica tutto per la cucina.

Questo racconto romantico ha contribuito a normalizzare o perfino esaltare l’autodistruzione come “prezzo dell’arte”. Per molti giovani cuochi è diventato quasi un modello da emulare.

Condizioni di lavoro e vulnerabilità

Oltre agli aspetti culturali, ci sono fattori strutturali che rendono i lavoratori delle cucine particolarmente vulnerabili.

Orari e stress

La cucina professionale è notoriamente stressante. Il servizio impone ritmi elevatissimi, con picchi di stress acuto durante le ore di punta. Il corpo è messo a dura prova: caldo intenso, lunghi periodi in piedi, infortuni minori frequenti.

Gli orari sono irregolari e spesso incompatibili con una vita sociale “normale”. I turni serali e i doppi turni riducono il sonno e alterano il ritmo circadiano. Tutto questo favorisce l’uso di stimolanti per lavorare e sedativi (alcol o cannabis) per “spegnersi” e dormire.

Paghe basse e precarietà

Molti cuochi lavorano per salari relativamente bassi, specialmente ai livelli più bassi della brigata. La precarietà contrattuale è diffusa. Questo può rendere difficile chiedere aiuto o rivendicare condizioni migliori: c’è sempre il rischio di essere sostituiti da qualcun altro disposto a fare lo stesso lavoro, magari anche accettando ritmi e abusi peggiori.

In queste condizioni, le sostanze diventano un “costo di lavoro” tollerato e accettato, più facile da sostenere che una battaglia per il miglioramento delle condizioni.

Conseguenze individuali e collettive

L’abuso di alcol e droghe ha conseguenze pesanti, sia per i singoli lavoratori sia per l’intero settore.

Salute fisica e mentale

Il danno più immediato è alla salute. L’alcolismo e l’abuso di droghe provocano problemi al fegato, al cuore, al sistema nervoso. Il rischio di incidenti sul lavoro aumenta. Gli effetti sul sonno e sulla salute mentale sono devastanti: ansia, depressione, burnout, tendenze suicidarie.

Non mancano storie di cuochi finiti in overdose o suicidatisi dopo anni di abuso e stress cronico. Queste tragedie vengono a volte minimizzate come “il lato oscuro del genio”, perpetuando il mito romantico invece di affrontare il problema.

Qualità del lavoro

L’abuso di sostanze ha effetti anche sulla qualità del lavoro. Può compromettere la concentrazione, i riflessi, il gusto. In un ambiente in cui la precisione e la sicurezza sono essenziali (coltelli affilati, fornelli, padelle bollenti), lavorare sotto l’effetto di sostanze può essere pericoloso per sé e per i colleghi.

Cultura tossica

Sul piano collettivo, la normalizzazione di alcol e droga contribuisce a creare e mantenere una cultura tossica in cucina. Chi non vuole partecipare ai rituali del bere o rifiuta l’uso di stimolanti può sentirsi emarginato. I nuovi arrivati spesso si adeguano per sentirsi accettati.

Questo meccanismo perpetua il problema di generazione in generazione di cuochi, rendendo il cambiamento ancora più difficile.

Come si può affrontare il problema

Affrontare seriamente la questione dell’alcol e delle droghe in cucina richiede un cambiamento profondo su più livelli.

Rompere il silenzio

Il primo passo è parlarne apertamente. Il problema non deve più essere un tabù o una faccenda privata da nascondere. Chef famosi che hanno parlato delle proprie dipendenze hanno contribuito a sensibilizzare, ma serve un impegno collettivo più ampio: sindacati, scuole di cucina, proprietari di ristoranti.

Riconoscere che il problema esiste è la base per trovare soluzioni.

Migliorare le condizioni di lavoro

Molti chef e imprenditori stanno cercando di cambiare la cultura del lavoro in cucina, proponendo turni più sostenibili, orari più regolari, giorni di riposo garantiti.

Migliorare la qualità della vita dei cuochi è una misura preventiva potente. Ridurre lo stress, garantire salari più giusti, offrire contratti più stabili aiuta a eliminare una delle radici del problema.

Formazione e prevenzione

Le scuole di cucina dovrebbero includere moduli dedicati alla salute mentale, alla gestione dello stress e alla prevenzione dell’abuso di sostanze. Allo stesso modo, i ristoranti possono offrire formazione interna e accesso a risorse di supporto.

Molte grandi aziende del settore alberghiero e della ristorazione hanno iniziato a offrire programmi di supporto ai dipendenti con problemi di dipendenza.

Cambiare la cultura del settore

Infine, serve un cambio culturale più profondo. Bisogna abbandonare la retorica del “duro a tutti i costi”, del “cuoco rockstar” distruttivo, e sostituirla con una cultura della professionalità, della cura di sé e degli altri.

Il vero chef leader non è quello che schiaccia la brigata o la costringe a bere per sentirsi parte di un gruppo, ma quello che promuove un ambiente sano, inclusivo e sostenibile.

Conclusioni

Il problema dell’alcol e della droga nelle cucine professionali è serio, complesso e radicato. Non riguarda solo le scelte individuali, ma un intero sistema di valori, pratiche e condizioni lavorative.

Non ci sono soluzioni semplici o immediate. Serve un cambiamento collettivo che coinvolga imprenditori, chef, scuole, lavoratori, istituzioni. Solo riconoscendo il problema e affrontandolo apertamente sarà possibile costruire una cultura della cucina più sana, più giusta e più umana.

Ma il problema peggiore e principale secondo me, resta, che parlarne con una persona che non hai mai fatto questo mestiere non potra mai capirti.

f.Ia e f.Ti

Disclaimer:
Questo articolo ha scopo puramente informativo e non sostituisce in alcun modo consulenze mediche, psicologiche o legali professionali. I temi trattati – tra cui l’uso di alcol e droghe – vengono affrontati con intento divulgativo e di sensibilizzazione. Se tu o qualcuno che conosci sta lottando con problemi di dipendenza o salute mentale, ti invito a rivolgerti a medici, psicologi o servizi di assistenza specializzati.

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